Addio a Harry Belafonte la voce dei diritti civili. Il primo artista di colore a vincere un Emmy nel 1959, lottò contro l'apartheid e criticò Obama

Mercoledì 26 Aprile 2023 di Mattia Marzi
Harry Belafonte (a sinistra) e la moglie insieme a Nelson Mandela nel 1999

«Ho trascorso una vita in costante stato di ribellione. Non sono un artista che è diventato un attivista: ma un attivista che è diventato artista», diceva di sé Harry Belafonte. Scomparso ieri a 96 anni nella sua casa di Manhattan a causa di un'insufficienza cardiaca, il "Re del Calypso" non è stato solamente uno dei cantanti più celebri degli Anni '50 e '60: sarebbe troppo riduttivo definirlo così. Parla per lui la sua storia, che Susanne Rostock raccontò nel 2012 nello straordinario docu-film "Sing Your Song" (è in streaming su Prime e AppleTv e merita di essere visto): dalle amicizie con Martin Luther King e Nelson Mandela al successo dell'album Calypso, passando per il contributo che diede all'operazione di We Are the World per aiutare nel 1985 l'Etiopia afflitta dalla carestia.


IL CARISMA
Bello e carismatico, con quella voce roca Harold George Bellanfanti Jr. - questo il suo vero nome - diventò famoso negli Anni '50 grazie a una sensualità audace, che sfidò i tabù sessuali in un'epoca di segregazione razziale: con Day-O (The Banana Boat Song), ispirata ai lavoratori portuali del turno di notte che, dopo aver caricato la nave bananiera, vogliono tornare a casa, non sfondò solo le classifiche di vendita ma anche le barriere tra bianchi e neri.

Nato a Harlem nel 1927 da genitori originari di Martinica e Giamaica (la madre faceva la governante, il padre lavorava come cuoco), aveva 19 anni ed era stato appena congedato dalla marina militare quando nel '46 fu assunto come factotum dall'American Negro Theater, dopo che un'attrice a cui aveva fatto dei lavoretti in casa gli aveva regalato un biglietto: «Avrei preferito cinque dollari. Ma una volta messo piede lì, non mi sono più guardato indietro», raccontava lui, spinto a cantare dall'intrattenitore e attivista afroamericano Paul Robeson.


ELVIS PRESLEY
Nelle sue canzoni Belafonte, rivale di Elvis, cantava la musica dei neri e dei Caraibi, ma i suoi fan erano in stragrande maggioranza bianchi. In concerto e in tv, l'artista si presentava al pubblico indossando camicie sbottonate che aderivano ai contorni del suo fisico, destando scalpore: l'album Calypso, che raccoglieva i successi Jamaica Farewell e Day-O (The Banana Boat Song), nel 1956 fu il primo in assoluto a vendere un milione di copie. Nel 1959, con cinque film già all'attivo (aveva debuttato sul set sei anni prima con Bright Road di Gerald Mayer), era l'uomo di spettacolo di colore più pagato: sostenitore di Martin Luther King - era lui a pagare quando il pastore veniva arrestato - e in prima linea nel '63 nella marcia su Washington, Belafonte usò le sue amicizie con Frank Sinatra, Marlon Brando e Henry Fonda per raccogliere più di 100mila dollari per finanziare le Freedom Rides del 1964, che sfidavano la segregazione razziali nei trasporti.


I PREMI
Primo nero a vincere un Emmy, nel '59, per Revlon Revue: Tonight with Belafonte, fu anche il primo a sfondare a Hollywood: al pari dell'amico fraterno Sidney Poitier («Per mio padre la morte di Sidney è stata la perdita più devastante, più di quella di Martin Luther King», disse l'anno scorso la figlia Shari), fu tra i primi attori afroamericani ad uscire dai ruoli stereotipati e avvilenti. I due recitarono insieme in "Non predicare spara!" del 72, in "Uptown Saturday Night" del 74, regia dello stesso Poitier, tra le varie esperienze cinematografiche di Belafonte, diretto anche da Robert Altman e da Spike Lee (nel 2018 recitò in BlacKkKlansman). Nell'85 fu il motore del progetto musicale We Are the World, ma affidò i riflettori a Michael Jackson e Lionel Richie, limitandosi a partecipare ai cori: il singolo raccolse oltre 63 milioni di dollari per l'Etiopia. Due anni dopo Belafonte - che sostenne anche il boicottaggio dell'apartheid in Sud Africa - fu nominato ambasciatore di buona volontà dell'Unicef. Già critico nei confronti dell'amministrazione Bush, nel 2011 non risparmiò neppure il primo presidente afroamericano degli Usa Barack Obama, accusandolo di «non avere empatia con i diseredati, bianchi o neri». Nel 2016 in un editoriale sul New York Times in cui invitava gli afro-americani a non votare per Trump scrisse: «Se Trump ci chiede cosa abbiamo da perdere rispondetegli: solo il sogno, tutto».

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