Bolt, il re è nudo: l’uscita di scena è senza oro

Domenica 6 Agosto 2017 di Piero Mei
Bolt, il re è nudo: l’uscita di scena è senza oro
Gatlin vince l’oro vero, Bolt l’oro del cuore. I 100 metri mondiali sono di Gatlin (dodici anni dopo la prima volta a Helsinki 2005 e a 35 anni), ma il trionfo è di Bolt che arriva terzo. Perché Justin, agli occhi della gente, rappresenta il Male, il Peggio: che abbia pagato con squalifiche da regolamento i suoi trascorsi nel doping non conta. Hai barato e non ci piaci, dicono gli infiniti buh dello stadio; lo sport è altro dicono, se questo dei giorni nostri è ancora sport, nei giorni di Neymar. Bolt ha perso ma ugualmente scocca la sua freccia, che colpisce contemporaneamente il cuore del Bolt people, che non ha colore né bandiera né etnia ed è globale, e l’obiettivo dei fotografi.

IN UN LAMPO
Le cose vanno di pari passo, ad altissima velocità: la corsa e l’immagine. Gatlin è qualche passo più in là: curioso che la faccia del vincitore l’abbia Usain, e Justin si rivolga al popolo con imperioso indice portato alla bocca. Ordina il silenzio, Gatlin. Riceve il Grande Buh: gli haters da tribuna non si fermano, nemmeno quando vedono che Justin parte più veloce, che Usain si muove il più lento dagli odiati blocchi, più lento di lui solo il cinese Su. Nemmeno quando rivedono quella rincorsa quasi disperata che Bolt tenta sul ragazzo Coleman, dieci anni meno di lui, che chiuderà con l’argento. Perché questo dice il tempo che dà il giudizio mondiale: Gatlin 9.92, Coleman 9.94, Bolt 9.95, che uguaglia il miglior Usain dell’anno ma non basta, questo no, non può bastare per un mondiale che è l’ultimo suo (e di Gatlin), un mondiale dove il tempo non conta ma conta la vittoria. E Usain deve arrendersi, sì alla giovane età di Coleman ma, quel che forse è peggio, a Gatlin. Che fu anche l’ultimo a batterlo quattro anni fa, giugno 2013, al Golden Gala romano. Gatlin che ha quattro anni più di lui: gli anni della squalifica? La corsa di Justin è aggressiva quanto lui, quella di Bolt farraginosa come non mai. Usain va ad abbracciarlo, Gatlin si è appena rialzato dalla terra che ha baciato, si è appena zittito dall’urlo che ha rivolto al pubblico, perché se il Bolt people non ha urlato per lui ma per il suo campione, allora prendetevi il mio di urlo. È passato da poco in pista un uomo nudo, portato via a forza dopo un inutile tentativo di placcaggio di un guardiano del tempio: ora nudo è il re. Ma è Bolt a consolare la gente, lui che avrebbe forse bisogno d’essere consolato. Lo abbracciano, gli chiedono il selfie, l’ultimo; o il penultimo, c’è la staffetta; o il terzultimo, magari ci ripensa se ritrova il corpo e i muscoli che sembrano provati con le agopunture e l’omeopatia del suo guru tedesco, il dottor Muller di Monaco. «La partenza mi ha ucciso; di solito miglioro il gesto turno dopo turno, ma stavolta non ce l’ho fatta» ha detto Usain a caldo; «Congratulazioni» avrebbe detto Usain a Justin, così racconta Gatlin, «te lo dico da uomo». «È surreale, dice Gatlin, sono diventato selvaggio con il pubblico»; e così spiega l’urlo da bestia. Bolt è tutto amore per il pubblico: «Grazie, Londra, non potevo aspettarmi niente di meglio da nessun’altra parte. Volevo far meglio per loro, non ci sono riuscito» ha ancora sorriso Bolt, tra bambini in lacrime per lui, e grandi pure, e bandiere della Giamaica che avrebbero voluto sventolare e invece restavano malinconicamente afflosciate sulle spalle della triste festa mancata. Ci sarà tempo, poi, per il reggae. 
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