Il medico "top 100" al mondo: «Battuto da Panatta ho lasciato il tennis e mi son messo a studiare»

Lunedì 26 Novembre 2018 di Edoardo Pittalis
Plebani, a destra, col premio Nobel prof. Mullis
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«Volevo diventare campione italiano Allievi di doppio, ma a Vicenza ci siamo trovati di fronte un certo Adriano Panatta. Lui (che oggi vive a Treviso, ndr) era di un altro mondo, aveva un fisico incredibile. Si fosse curato sarebbe stato il più grande del suo tempo, rispetto a chi  aveva più fantasia. Avevamo tutti 15 anni, ma lui era irraggiungibile». Campione Mario Plebani, 68 anni, di Schio, lo è diventato ugualmente: non del tennis, ma della medicina. Siede in cattedra al Bo di Padova dove insegna Biochimica clinica e Biologia molecolare. È stato appena inserito, unico italiano, nella lista dei 100 patologi più influenti del mondo: solo scienziati molto noti e di riconosciuto valore internazionale. Sono loro che studiano le malattie per capire in anticipo con quali farmaci curarle, per creare medicine sempre più mirate, evitando interventi invasivi e dolorosi.
Professor Plebani come si sente a far parte di quella lista?
«Questa è stata veramente una cosa inaspettata, tra i 100 patologi ci sono solo tre che mi assomigliano perché fanno biochimica clinica. Non so nemmeno chi ringraziare per l'inclusione nella lista che comprende anche tre Premi Nobel! A livello internazionale negli ultimi anni avevo già ricevuto premi molto prestigiosi, ma quando ho saputo di questo, come si dice? Domine non sum dignus. Ecco: mi è sembrato troppo bello, è stato un grande regalo. Mi sono commosso. È un riconoscimento che non è venuto da una lobby, ma dall'esterno. Non c'è nomination».
Il ragazzino tennista sognava di arrivare così in alto?
«Ho fatto molto scoutismo e molto sport, soprattutto sci e tennis, perché ero un bambino asmatico. Lo sci l'ho praticato a livello agonistico con buoni risultati dai 14 anni sino a quando ho frequentato l'università. E a farmi capire che nel tennis non sarei mai diventato un campione, ci ha pensato Panatta. Posso sempre dire che la lezione mi è stata impartita da un grande maestro. Sono nato in una famiglia che faceva altro, nessuno pensava alla Medicina: mio padre era commerciante di abbigliamento, lo aiutava in negozio mia madre che aveva dovuto lasciare Biologia a Padova quasi vicina alla laurea. Dopo la maturità classica sono rimasto indeciso fino all'ultimo: non sapevo se fare il notaio, un amico di famiglia era notaio a Schio; o filosofia o medicina. A proposito, mio figlio poi si è laureato in filosofia. Alla fine ho optato per medicina, mi ha affascinato la biochimica e al terzo anno sono entrato nel laboratorio di Padova diretto dal professor Giovanni Ceriotto che è stato il mio primo maestro».
Come è stata l'infanzia in casa Plebani?
«Sono il primo di tre fratelli, forse ho avuto sempre un forte senso di responsabilità, nel bene e nel male. Sarà anche per questo che il mio maestro con affetto mi chiamava sempre vecio mio. I genitori lavoravano in negozio e noi siamo stati allevati dalla nonna materna Angelina, una ragazza del 99, che era di Nervesa e dopo Caporetto era sfollata nel Foggiano, a Foresta Umbra. Al ritorno è andata dai parenti a Vicenza che avevano una trattoria famosa, Garofolin, completamente distrutta dalle bombe nella seconda guerra. A Vicenza ha conosciuto il marito. Il nonno aveva un negozio di biciclette e sono venuti tutti i grandi campioni, soprattutto quelli della Legnano: Girardengo, Bartali A casa eravamo tutti rigidamente bartaliani, quando iniziava il Giro d'Italia era una festa, mi è rimasta la passione per la bicicletta, ne ho una da corsa».
Quando è incominciata la carriera universitaria?
«Veramente la mia carriera è stata per molti anni ospedaliera. Ho fatto il militare tardi, già da sposato: mentre all'ospedale ero il più giovane, in caserma ero il più vecchio e ho capito che non c'era tempo da perdere. In un convegno a Venezia ho conosciuto il professor Angelo Burlina che dirigeva il Laboratorio di Verona, mi ha voluto con sé dal 1981 anche quando è stato chiamato a Padova. Mia moglie Maria Laura, urologa pediatra, ha cambiato molte volte per colpa mia: è grazie al suo sacrificio se la mia carriera non si è bloccata. Stiamo insieme dagli anni del liceo. Burlina nel 1991 mi disse che stavano iniziando i lavori per costruire il nuovo ospedale dei Colli e che io sarei andato a dirigerlo. Quasi trent'anni dopo stiamo ancora aspettando l'inizio dei lavori! Burlina è morto letteralmente tra le mie braccia il 23 ottobre 1993, colto da un infarto in istituto».
Poi è venuto il tempo della cattedra al Bo
«Sono rimasto ospedaliero fino al 2002. Quando sono rimasto senza maestro, tutti dicevano che ero bravo ma che non avrei trovato una cattedra universitaria, anche se dirigevo uno dei più grandi Laboratori d'Italia. Sono andato a prendermi l'idoneità fuori casa, in un concorso bandito a Sassari: per diventare universitari c'era il sorteggio della prova e 24 ore di tempo per presentare una lezione accademica che doveva durare almeno 45 minuti! Non era un esercizio semplice, c'erano molti trucchi per bocciare a quei tempi, bastavano pochi minuti in più o in meno. Fortunatamente mi toccò un argomento che conoscevo bene: la biochimica clinica nel carcinoma della prostata. Era giugno, ho distrutto la camicia: questa è come la Sacra Sindone, dissi mettendola in valigia. Sono riuscito a diventare universitario perché ho sempre fatto molta ricerca, ho sempre pubblicato tantissimo. Avevo e ho quelli che si chiamano indicatori bibliometrici molto buoni, HI da Indice di Hirsch che stabilisce il rapporto tra il numero di pubblicazioni e il numero di citazioni dei lavori. L'insegnamento è la cosa che più mi piace».
Cosa vuol dire oggi fare il patologo?
«Significa non solo identificare le malattie, ma identificarle prima dai sintomi. Siamo proiettati sempre più nella ricerca di anticipare le diagnosi. Andiamo verso la medicina personalizzata: prendiamo un carcinoma e identifichiamo la base molecolare per trovare il farmaco giusto nelle dosi giuste. Si deve superare il concetto di una medicina curativa che non tiene conto solo della persona, ma anche del profilo che deriva dalle mutazioni genetiche e dall'espressione della malattia. Fino a qualche tempo fa il patologo lavorava sul tessuto: una biopsia, un'autopsia Oggi lavora su una goccia di sangue per identificare le basi della malattia. Ora per diagnosticare le malattie prenatali basta un prelievo nel sangue della mamma, lo stesso accade per moltissime malattie: la diagnosi oggi si basa sul molecolare. La diagnosi di infarto si fa su un test di laboratorio, non è più sufficiente l'elettrocardiogramma: con l'esame della Troponina dopo 20 minuti si può dire se uno ha un infarto. Una volta per diagnosticare nel bambino la celiachia bisognava fare due biopsie invasive, oggi basta un prelievo di sangue e c'è subito la diagnosi. Oggi le speranze dipendono dall'identificazione di bersagli molecolari contro cui vanno fatti dei farmaci, come bombe intelligenti: vanno a colpire solo quelle cellule malate e non quelle sane attorno. E quindi diminuiscono gli effetti non desiderati. Ci sono grandi margini, nell'ambito delle leucemie e dei linfomi sono stati fatti passi incredibili; moltissime di queste forme non si curano, si guariscono».
 
Ultimo aggiornamento: 27 Novembre, 11:54 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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