Milan, Berlusconi dice addio alle follie del calcio e scopre la sobrietà

Venerdì 14 Aprile 2017 di Mario Ajello
Berlusconi

Lo ha sempre chiamato, in 31 anni di amore, quello di Silvio per la squadra rossonera, "il mio tesoro più bello". E separarsi dal Milan, per Silvio Berlusconi, è un dolore grande quasi quanto quello della perdita di Mamma Rosa. Così della sua squadra il patron di Arcore parlò, a Karol Wojtyla, durante un'udienza privata in Vaticano: Santità, come lei porta in giro per il mondo il nome di Dio, io porto in giro per il mondo il nome del Milan.

Che leggenda, che epopea, quella che ha unito il re di Arcore e di Milanello alla sua squadra in una passione di pancia e di cuore, ma anche di testa. Perché il piano politico e quello calcistico (insieme a quello televisivo, naturalmente) si sono sempre intrecciati in questa storia e il team rossonero ha funzionato sia come macchina dei sogni sia come fattore di consenso politico in Italia e come proiezione internazionale per il fascino di Silvio. Per Berlusconi, quando si trattava di Milan, anche gli arbitri sono comunisti: ci hanno tolto due scudetti. Ma ora e in mezzo ai soliti sospetti - non è che il closing sia solo un rientro di capitali italianissimi?, si chiedono in tanti - è finito tutto. Proprio tutto tutto?

LA CONTINUITÀ
Sembra di intravedere in questa sofferta separazione una sorta di continuità. Ovvero, il sacrificio di ciò che svetta al piano più alto della gerarchia sentimentale di Silvio appare un nuovo modo per continuare, attraverso il Milan, la memoria del Milan e la cessione del Milan, a fare politica. A rilanciare il proprio mito. A ridefinire se stesso come personaggio pubblico, star del nazional-popolare e uomo del momento. Berlusconi ha il cuore spezzato dal distacco (Sono addolorato e commosso ma resterò il primo tifoso) e il suo tormento è già epica. Un po' come l'esibita tenerezza che trasuda dalla scena in cui Silvio, da nonno di Fiocco di Neve, nutre con il biberon l'agnellino che ha salvato dal menù di Pasqua.

Nell'ambascia, sincera, di questa fine di una storia c'è Berlusconi che presenta se stesso come una persona sentimentale, che si costringe a privarsi di un grande sogno in nome del valore del risparmio - non è più tempo di miliardi e follie in un Paese non più spensierato e affluente come quello in cui egli comprò il Milan - e della sincerità nel rapporto con il popolo dei tifosi, non solo milanisti, che coincide più o meno con quello degli elettori: non posso più permettermi di dare al Milan tutto quello che ho dato e che serve oggi per una squadra nello show business del moderno calcio globale, in cui i cinesi sono più attrezzati. Ecco, insomma: vendita come rinuncia ma anche come rilancio.

E, al solito, il Milan si rivela nella strategia berlusconiana qualcosa che contiene e supera il pallone.
Il senso di responsabilità è la nuova frontiera del Berlusconi politico, riammesso nel moderatismo europeo, pacificato con la Merkel, paternamente impegnato a smussare gli angoli populisti di Salvini (a sua volta milanista) e Meloni, voglioso di unire e non più di dividere. E in questo senso di neo-responsabilità egli mira a fare rientrare, nell'intreccio dei vari piani, la cessione del team. Che rappresenta anche la fine di un conflitto d'interessi e rende Silvio più libero e leggero, oltre a dargli un'immagine di sobrietà che ben si accorda con il profilo da padre e da riserva della Repubblica che sta cercando di darsi. Perfino mangiando umilmente l'hamburger da McDonald's.

Il Berlusconi politicamente trionfante aveva bisogno di una squadra di campionissimi. E quando vinceva lo faceva in entrambi i campi di gioco. Basti pensare al 1995: dopo il successo elettorale dell'anno prima con la discesa in campo, ecco la doppietta scudetto-Champions League con Fabio Capello. E da allora l'uomo che atterra in elicottero a Milanello, a presentare i grandi acquisti e a mostrare i grandi trofei (29, un bel record), diventa l'uomo che può portare l'Italia intera alla vittoria.

IL PROGETTO
Un progetto che egli ancora coltiva, nonostante l'età, ma il Silvio proporzionalista non ha bisogno più di una vetrina maggioritaria e sfavillante quale è stato il suo Milan. E non tanto gli serve la sua vecchia fissazione per l'attacco, ha bisogno viceversa di stare un passo indietro rispetto alle passioni folgoranti, come un capitano non giocatore, un patron non proprietario che ha anche rinunciato a diventare presidente onorario. D'altronde un Milan che vivacchiasse non sarebbe un atout elettorale.

Quando, nel giugno del 2009, dovette vendere Kakà per motivi di bilancio, Berlusconi ammise: Questa cessione ci costerà almeno il 2 per cento nelle urne. L'attuale vendita, avvenuta guarda caso non a ridosso delle elezioni politiche, difficilmente gli arrecherà danni nei sondaggi. Perché è proprio cambiata la fase.

E sembra un millennio fa il 2013, in cui alla vigilia del voto Silvio piazzò il colpaccio: ingaggiando Balotelli, che vale 400 mila voti (circa l'uno per cento sul piano nazionale), assicurarono i sondaggisti.

Bersani aveva capito la pericolosità dell'acquisto: Io incontro la gente e Berlusconi fa shopping di calciatori. Ora di questo si occuperanno i nuovi padroni cinesi e non più lui. Perché il diavolo s'è fatto agnello, ovviamente per modo dire.

Ultimo aggiornamento: 15 Aprile, 00:55
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